La Comunità Eritrea di cui si sente parlare molto poco è una fra le piu' longeve ed attive in Lombardia.
Riportiamo l'interessantissimo post del giornalista Fulvio Grimaldi che ha sempre seguito lo sviluppo della situazione politica eritreo apparso in questi giorni sul suo blog, una fotografia che parte da anni di guerra sino ai giorni nostri . Non si parla mai di Eritrea come se appositamente certi modelli dovessero cadere nel dimenticatoio.
"C’ero già stato, in Eritrea, diverse volte. Come sempre da non-nonviolento. La prima, appena scelto di fare il corrispondente di guerra da freelance, dopo aver coperto la Guerra dei Sei Giorni in Palestina per Paese Sera. I miei territori d’elezione erano quelli dove ancora non era finita la lotta di liberazione dal colonialismo, non-nonviolenta e perciò vittoriosa: Palestina, Irlanda del Nord e, appunto, Eritrea. Eritrea che avrebbe dato vita alla più lunga lotta di liberazione di tutta la decolonizzazione: 1961-1991. Il classico Davide, tutto solo, contro il Golia etiopico che aveva alle spalle, prima, tutto l’Occidente imperialista e, poi, tutto l’Oriente “socialista” e che già aveva subito, dal 1890, l’offesa del colonialismo italiano, quello degli “italiani brava gente”, brutale, razzista e predatore, poi, dal 1941, quello britannico e, infine, l’annessione all’impero di un manigoldo genocida, ma caro all’Occidente, Hailè Selassiè, re dei re. Da qualcuno, animato da appettiti neocoloniali, incoronato “padre dell’Africa”.La seconda volta fu, nel 1977, attraversando con un barchino il Mar Rosso dallo Yemen, dribblando di notte le navi da guerra etiopiche appostate in vista della Dancalia liberata dal Fronte. Sbarcammo a Barasole, poco sopra il porto di Assab, accesso al mare ambito da Addis Abeba. Non era finito il cerimoniale del ricevimento allestito dagli anziani del villaggio, che arrivarono le bombe del nuovo tiranno colonialista, il “Negus rosso”, Mengistu Hailemariam, capo del DERG, gruppo di ufficiali che aveva rovesciato il vecchio imperatore sanguisuga e, dopo qualche occhieggiamento con Washington, si era collocato tra le braccia di Brezhnev. E di Fidel. Che, fraintendendo per obnubilazione terzinternazionalista e pentendosi poi tardivamente, inviò 15mila cubani a schiacciare una lotta di liberazione nazionale condotta nel segno di Marx, Fanon, Cabral, Malcolm X, insomma del meglio su piazza. Barasole incenerita con capanne, edifici, bestiame, persone. Noi, con donne e bambini, portati in salvo nelle grotte laviche alle spalle del villaggio. Poi tutto un viaggio per spiagge sconfinate e vuote, da turismo di sogno, e su, tra le altissime rocce vulcaniche dove la guerriglia celava le sue infrastrutture: cliniche, officine, scuole, coltivazioni., tra picchi e anfratti dove i piloti russi ci cercavano e non ci beccavano più.
Nel 1978 tornai con la guerriglia nel
bassopiano al confine col Sudan. Stavolta le città, Tesseny, Barentu, Agordat,
non le passammo al largo, strisciando tra acacie e frutteti. Ci entrammo
trionfalmente: erano state liberate e già prosperavano scuole rivoluzionarie,
cliniche, centri di assistenza sociale, organizzazione comunitaria. Provai a
raggiungere l’armata vittoriosa nel 1989 nella sua grande offensiva, giù da
Nakfa verso Asmara, travolgendo le ultime resistenze etiopiche. Ma logistica e
normative strategiche non lo consentirono e dovetti seguire la liberazione
della nostra prima colonia, la vittoria di una vera rivoluzione al tempo in cui
altre si apprestavano a spegnersi, alla radio, in tv, sui giornali.
Che allora erano tutti pieni di ammirazione e
simpatia. Il negus rosso, è vero, non c’era più e dunque anche le “sinistre”
poterono rivedere i propri strafalcioni da allineamento con Mosca (lo fece
perfino l’Avana, ma solo nel 1989, a giochi fatti) ed entusiasmarsi per la
vittoria di questa estrema battaglia al colonialismo, stavolta interafricano,
ma con grossi sponsor alle spalle dell’aggressore.
Libera
Eritrea = Stato canaglia
E siamo all’oggi. Ammirazione e simpatia si
sono stravolti nel loro contrario. Nell’Africa dell’Algeria, dello Zimbabwe e
dell’Egitto assediati dal revanscismo colonialista, della Libia e Somalia
disintegrate, del Sudafrica in pieno tradimento di tutte le sue premesse, dei
tre fantocci centroafricani che fanno da quinte colonne per la riconquista
imperialista del Continente. Kenia, Uganda ed Etiopia, e di tutti gli altri
regimi più o meno amannettati ad Africom, l’Eritrea è diventata per tutti, uniti
nella perversa maieutica Nato e neoliberista, la piccola grande bestia nera. Lo schema è
quello classico, tanto facile, stereotipato e
rozzo, quanto bene accetto all’ansia dirittoumanista degli utili idioti
e amici del giaguaro: dittatura spietata, partito unico autocratico, lavori
forzati, prigionieri politici incatenati e torturati, esecuzioni di chi fiata,
una gioventù bruciata dalla militarizzazione perepetua, torme di disperati in
fuga a rischio di insabbiarsi nel Sahara o affogare nel Mediterraneo. Tutta
roba già martellata su cervelli che dovevano poi assistere, catatonici o
compiaciuti, alla distruzione di Jugoslavia, Serbia, Iraq, Libia, Siria e
relativi genocidi, nel nome del recupero dei diritti umani e della costruzione
della democrazia.
Una sguattera di operazioni del genere è tale
Sheila Keetaruth, già capa in Africa dell’arnese Cia Amnesty International,
incaricata dall’ONU di trovare modo di creare le premesse per l’aggressione
all’Eritrea alla conferenza di Ginevra della Commissione per i Diritti Umani
(presieduta dai sauditi) del prossimo giugno. Non ha mai messo piede in Eritrea
e ha raccolto testimonianze tra eritrei veri e finti rastrellati in Etiopia in
produttiva collaborazione con funzionari di un paese che da quasi settant’anni
cerca, a forza di bombe e sterminii, con pieno appoggio e su istigazione degli
Usa, di mangiarsi l’ex-colonia italiana. La credibilità della signora si basa
su questo retroterra, come sulla dabbenaggine o complicità dei media tutti e
delle forze politiche occidentali tutte. Vale quella dei “giudici” della Corte
di Giustizia Internationale (quella che incrimina solo soggetti di pelle nera),
o del Tribunale Penale per la Jugoslavia (quella che ammazza in cella chi non
riesca a provare colpevole).
Demonizzazioni
imperialiste, verità eritree
Visti gli esiti del multipartitismo come
adottato dai ceti compradori del neocolonialismo (senza neanche parlare di
quello in uso da noi, dove ogni diversità si omologa in larghe intese),
l’Eritrea ha organizzato lo Stato e la partecipazione della popolazone nel
Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia (FPDG), erede diretto del
Fronte guerrigliero (FPLE) che ha portato il paese alla liberazione e
all’indipendenza. Isaias Afeworki, vero padre della patria ed espressione
dell’unità e del destino comune di un popolo compostoa nove etnie e tre
religioni, comandante del FPLE dalla sua creazione, ne è il segretario.
Nell’immaginario del popolo corrisponde a Fidel, a Chavez, a Gheddafi.
Di Isaias (in Eritrea tutti si rivolgono tra
loro con il primo nome, essendo il secondo quello del padre) per le strade,
nelle vetrine e negli uffici non si vedono immagini, tanto che sono dovuto
andare su google per vedere quanto l’uomo di oggi differisse da quello,
giovanissimo, che vidi a Khartum nel 1978. Né si vedono – consentitemi il passo
di lato - per i grandi viali alberati dell’Asmara o di Keren, nei gruppi di
giovani dello struscio, o nei crocchi di anziani agli innumerevoli caffè
“Impero”, “Tre Stelle”, “Maria”, nelle code per i cinema “Roma”, “Verdi”,
“Impero”, le facce piatte di chi s’è perso e ha perso il mondo nei
tecno-intrugli deficienti degli smartphone. Il cellulare ce l’hanno e a volte
telefonano. Ma perlopiù guardano, sentono e si parlano. E neppure sono
inciampato, alle fermate degli autobus, sotto gli edifici pubblici, intorno a
ministri o dirigenti politici, nei vicoli che serpeggiano per i villaggi di
tucul, tra i sicomori nel bassopiano, alla cui ombra si riuniscono le assemblee
di paese, nei mercati-formicai abbaglianti di colori, né i militari con
mitraglia imbracciata, né guardie del corpo, nei poliziotti robocop, da noi
fatti passare per custodi delle sicurezza ed effettivo strumento di
intimidazione.Per scoprire un vigile – disarmato – ho dovuto
correre all’arrivo, ad Asmara, del Giro Ciclistico d’Eritrea (con
partecipazione di squadra toscana “Amore e Vita”), sotto le tribune che il
colonello Mengistu aveva allestito per assistere alle parate delle sue armate e
che, bastonato e cacciato il negus rosso, ora tracimano di tumultuante folla in
delirio per i suoi pedalatori connazionali, primi otto all’arrivo e in
classifica su otto nazioni partecipanti. In tribuna tre dei ministri che ho
intervistato: Informazione, Agricoltura, Sanità. Neanche l’ombra di una body
guard. Gira così per il paese anche Isaias. Chissà se è perchè non gliene fotte
niente di esibirsi con un esercito personale, o perché quiggiù nessun notabile rischia il lancio di oggetti, o
improperi. Ne ho incontrato parecchi di studenti, contadini, mercanti, bariste,
tecnici, scienziate. E ministri e dirigenti del Fronte. Dagli uni agli altri
non c’era soluzione di continuità umana.
Ne venivo via, in ogni caso, con la sensazione di aver incontrato persone
perbene, autentiche, prese da quel che fanno, che ci credono. Se poi penso alle
facce e ai modi dei nostri potentati è come passare da un romanzo di Calvino
all’Isola dei Famosi.
Una luce nel Corno d'Africa
Il paese è povero, ma in piedi. Nel 2009
l’ONU ha decretato sanzioni, poi rinnovate nel 2011 e via via, Cina e Russia
pilatescamente astenuti. Quell’ONU, foglia di fico su tutte le nefandezze Usa e
UE, che, da sempre, all’Eritrea ha voluto male. Negli anni ’50, partiti gli italiani
e poi i britannici, l’ha voluta federare all’Etiopia e poi non ha detto niente
quando il monarca più sanguinario e ottuso dell’intero continente se l’è
incorporata. Né s’è sognata di fornire solidarietà e sostegno, almeno politico,
a una lotta di liberazione costata agli eritrei decine di migliaia di vittime,
tra civili e combattenti e infinite distruzioni. Lotta dei poveri, in sandali
fatti dai copertoni, contro i tank, i Mig, i Phantom, forniti ai lacchè
etiopici dalle superpotenze. Forse al Palazzo di Vetro, che comunque sta
inesorabilmente all’orecchio della Casa Bianca, si presentiva che con
quell’Eritrea di un Fronte impermeabile a ogni condizionamento esterno, arabo,
africano, o occidentale che fosse, non sarebbe finita come con l’India, o il
Sudafrica, subito rientrati, tramite Commonwealth, nell’orbita capitalista.
Hanno vinto, gli eritrei, armandosi con le armi sottratte al nemico. Quelle al
nemico distrutte costeggiano ancora le grandi via tra est e ovest, nord e sud e,
ai margini della capitale, ne hanno fatto una collina che è memoriale e monito.L’Eritrea è un paese bellissimo, tra il
tropicale e l’alpino. Un sogno di turismo ecologico e culturale. Configurazioni
geologiche affascinanti e varie come neanche la fantascienza galattica le ha
saputo immaginare. L’Africa nera più nera e poi la moderna urbanistica
razionalista e la vita di comunità che concilia musulmani, ortodossi e
cattolici, tutti con le loro grandiose cattedrali e moschee. Potrebbero avere
qualche risentimento, questi figli e nipoti di una colonizzazione che li ha
depredati e umiliati, oltre a farne combattere e morire i nonni, da ascari,
nelle guerre dei genocidi fascisti in Libia ed Etiopia. Ci penso mentre
passeggio ad Asmara, per il Viale della Liberazione, tra ragazze-fuscello in
leggins e signore in vaste sottane, con il gran scialle bianco e i capelli
ancora a treccine sulla nuca. Questo viale si chiamava allora “Campo Cintato” e
divideva in due la città. Da un lato i signori coloni con palazzi e ville,
cinema e circoli, dall’altro gli indigeni e le loro baracche. Da qui all’altra
parte non si passava, se non per fare i giornalieri: camerieri, sguatteri,
pulitori, spazzini. Avrebbero qualche motivo per risentirsi a
incrociare questi nostri visi bianchi con le telecamere Sony puntategli
addosso. E infatti le evitano, ma è per un sano sospetto di fare da folklore,
come lo cercavano un tempo signori curiosi di esotismo. Ma non appena saluti,
sorridi, è subito uno sconfinato biancheggiare di denti su fondo scuro. E ti
pare di sentire un soffio di tempi lontani, perduti, quando eri piccolo e tutte
le cose si facevano ancora insieme, quando non c’era l’ognuno per sé, più
veloce, più forte, più fregone, più sprofondato nell’abisso senza fondo del suo
telefonino. Qui sorridono tutti, sei avvolto in vapori di cordialità, c’è una
specie di onda d’intesa sul fatto che siamo tutti umani che avvolge, rasserena,
conforta, fa allegria. Dici una volta il tuo nome e tutti ti ci chiamano ogni
volta che ti incontrano. Diventi parte di una memoria collettiva e, se ti
fermi, di una collettiva vita.Altro che dittatura. Prima di parlare di
Eritrea qui in Occidente, e soprattutto in Italia, ci si fermi. Si contemplino
gli scempi politici, morali e culturali che ci siamo lasciati infliggere da una
successione di bande di cialtroni, si apra un libro di storia e si noti chi
abbiamo sulle spalle, se non sulla coscienza collettiva, i marescialli Graziani
dei mille impiccati tra Addis Abeba e Assab, il maresciallo Badoglio dello
sterminio con i gas. E poi si stia zitti."
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